di Antonio Soggia - dottore di ricerca in Storia Contemporanea - Università di Torino
05 febbraio 2013
Ne abbiamo avuto un’ulteriore prova questa mattina, alla lettura dei commenti dei giornali alle parole di mons. Vincenzo Paglia sui diritti dei gay. Titola la Repubblica: «Prima apertura nella Chiesa: “Diritti alle coppie gay”». E Vito Mancuso, che pure è un teologo e di magistero della Chiesa dovrebbe intendersi, scrive che “è la prima volta che un ministro vaticano riconosce esplicitamente e pubblicamente l’esistenza delle coppie omosessuali rendendole soggetto di diritti” e individua nella parole di Paglia “una sterzata abbastanza netta rispetto all’intransigenza esibita finora”. Non è vera né la prima, né la seconda osservazione.
Prima di tutto, Paglia non ha riconosciuto
“esplicitamente e pubblicamente” le coppie omosessuali. Ha al contrario parlato
di “diritti individuali” e di “soluzioni di diritti privato”, soprattutto alle
questioni di ordine patrimoniale. La coppia omosessuale non è quindi, di per
sé, riconosciuta e considerata “soggetto di diritti”. Paglia ha poi ribadito
che la coppia e la famiglia sono intrinsecamente eterosessuali, perché fondate
sulla differenza biologica tra l’uomo e la donna. Quindi niente matrimonio per
le coppie gay e lesbiche, e niente che gli assomigli, cioè un istituto di
natura pubblicistica che preveda un accordo solenne davanti ad un pubblico
ufficiale, una registrazione civile, concreti effetti in ambito fiscale e
patrimoniale.
Mancuso sembra molto eccitato anche dal fatto che
Paglia abbia ribadito “la pari dignità di tutti i figli di Dio”, parole nella
quali ha sentito “un po’ di profumo evangelico”. L’articolo 3 della
Costituzione della Repubblica Italiana – il cui profumo è l’unico che, in uno
Stato laico, mi piacerebbe poter fiutare – afferma che “Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali”. Pari dignità sociale e uguaglianza davanti alle legge
sono legate e interdipendenti: l’una non è data, senza l’altra. Non esiste pari
dignità per le persone omosessuali senza l’uguaglianza dei loro diritti
rispetto ai cittadini eterosessuali. E l’uguaglianza implica anche l’accesso ai
diritti umani fondamentali, compreso quello di sposarsi e di costituire una
famiglia, per chi lo desidera. Non basta qualche “diritto privato” e
“individuale”, qualche “soluzione patrimoniale” concessa unilateralmente e
caritatevolmente, proprio come l’elemosina, per colmare l’attuale vuoto
normativo.
Nelle parole di Paglia non c’è poi nessuna “sterzata
netta” rispetto al passato. Il 19 settembre 2005, nella prolusione al consiglio
permanente della CEI che cominciava quel giorno, il cardinale Camillo Ruini –
cioè il capo dei vescovi italiani di allora – dichiarò:
«Per quelle unioni che abbiano desiderio o bisogno di
dare una protezione giuridica ai rapporti reciproci esiste anzitutto la strada
del diritto comune, assai ampia e adattabile alle diverse situazioni. Qualora
emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate,
eventuali norme a loro tutela non dovrebbero comunque dar luogo a un modello
legislativamente precostituito e tendere a configurare qualcosa di simile al
matrimonio, ma rimanere invece nell’ambito dei diritti e doveri delle persone.
Esse pertanto dovrebbero valere anche per convivenze non di indole
affettivo-sessuale»
Dopo la prolusione di Ruini, nel dibattito pubblico
intervennero illustri giuristi cattolici come Giovanni Giacobbe, Preside della
facoltà di Giurisprudenza della "Lumsa" (dalle pagine di
"Avvenire") e Cesare Mirabelli, Presidente emerito della Corte
Costituzionale, che proposero, rispettivamente, “di tutelare tali rapporti con
contratti di diritto privato” e di riconoscere “alcuni singoli diritti
individuali come il diritto all'abitazione o al risarcimento del danno in caso
di morte
del convivente”.
Niente di nuovo, insomma. Rinfrescarsi la memoria non
è poi così difficile, basta usare Google. Ma tant’è.
Ricordo anche che nel 2007 assistemmo ad una lunga e
penosa negoziazione tra il ministro delle Pari Opportunità, Pollastrini, e
quello della Famiglia, Bindi, proprio per arrivare a soddisfare le richieste
vaticane sul punto dei “diritti individuali”: il progetto di legge sui Dico,
infatti, prevedeva non solo diritti e tutele enormemente inferiori al
matrimonio, ma anche – sul piano simbolico – che i due partner non si
presentassero insieme all’anagrafe per registrare l’unione, ma individualmente,
informando l’altra parte con una raccomandata. In questo modo, si sosteneva,
non si sarebbe istituito nulla di simile al matrimonio, che prevede un impegno
congiunto, pubblico e solenne. Gli appetiti bestiali delle gerarchie cattoliche
non furono saziati neanche da questa evidente violazione della nostra dignità,
e così anche i Dico furono archiviati.
Paglia si augura anche che la Chiesa si impegni per la
depenalizzazione dell’omosessualità, che, ha ricordato, è considerata un reato
in “forse 25 paesi”. In realtà i paesi sono più del doppio, in molti casi la
punizione è la tortura e il carcere per più di 10 anni e, in 7 paesi, la pena
di morte. Questo sì, sarebbe un bel passo avanti: per due volte, nel 2008 e nel
2001, la Città del Vaticano, in sede Onu, ha votato contro la risoluzione che
chiedeva la depenalizzazione mondiale dell’omosessualità. Chissà, forse gli
alti prelati si sono riletti il Vangelo e hanno scoperto che torturare e
uccidere non è molto cristiano. Chissà. Vedremo. In ogni caso sarebbe una
novità vecchia di 2.000 anni.
di S.C.
CASSAZIONE 601 CAMERA DI CONSIGLIO 8-11-12
UNA PILLOLA NORMATIVA “SENZA EFFETTI COLLATERALI”
La Suprema
Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza
della Corte di Appello di Brescia del 26/7/2011 che sanzionava l’affidamento
esclusivo del figlio alla madre.
Motivi del ricorso che principalmente interessano sono stati
i seguenti:
- carenza motivazionale della sentenza di secondo grado, in
quanto la Corte
d’appello avrebbe dovuto motivare la ritenuta idoneità della madre
all’affidamento esclusivo, “a fronte del mancato espletamento dell’indagine
chiesta dal Servizio Sociale di ( ) diretta a verificare se il nucleo
familiare della madre composto da due donne, tra di loro legate da relazione
omosessuale, fosse idoneo, sotto il profilo educativo, ad assicurare
l’equilibrato sviluppo del minore” in relazione al suo diritto “ad essere
educato nell’ambito di una famiglia quale società naturale fondata sul
matrimonio”;
- violazione degli artt. 342 e 155 bis c.c. e conseguente
censura della statuizione di inammissibilità del secondo motivo di appello,
osservando che con quel motivo si era lamentato che il tribunale non aveva
approfondito, come richiesto dal servizio sociale, se la famiglia in cui è
inserito il minore, composta da due donne legate da una relazione omosessuale,
fosse idonea sotto il profilo educativo a garantire l’equilibrato sviluppo del
bambino, “in relazione ai diritti della famiglia come società naturale fondata
sul matrimonio di cui all’art. 29 della Costituzione ….”
Per la Suprema Corte
le censure sono inammissibili perché la prima “non è attinente alla ratio della
decisione impugnata sul punto, che ha rilevato l’inammissibilità del
corrispondente motivo di appello per difetto di specificità”, e la seconda
perché “il ricorrente si limita a fornire una sintesi del motivo di gravame in
questione, dalla quale, invero, non
risulta alcuna specificazione delle ripercussioni negative, sul piano educativo
e della crescita del bambino, dell’ambiente familiare in cui questi viveva
presso la madre: specificazione la cui mancanza era stata appunto
stigmatizzata dai giudici di appello. Né il ricorrente spiega altrimenti perché
sarebbe errata la statuizione di quei giudici d’inammissibilità della censura
per genericità, essendo a sua volta
generico e non concludente anche l’accenno ai principi costituzionali di cui
sopra”.
Fondamentale è il seguente giudizio di valore espresso dalla
Corte:
“alla base della
doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di
esperienza, bensì il mero pre-giudizio che sia dannoso per l’equilibrato
sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una
coppia omosessuale”.
Viviamo purtroppo ancora di pre-concetti e di pre-giudizi,
basando il nostro essere su schemi sociali che non hanno base scientifica e
antropologica. Ancora nel 2013 basiamo i nostri giudizi su assurdi refusi
storici, sociali e di falsa morale!
Commentandosi da sé, la sentenza in discorso mi porta alla
mente le parole di Trouillot “gli esseri umani tendono a produrre schemi
interpretativi che riconducono a forza la realtà all’interno di queste
convinzioni. Escogitano formule che consentono loro di reprimere l’impensabile
e di ricondurlo all’interno del discorso accettato”
Ebbene si, l’omosessualità non è una scelta, non è una
malattia né è frutto di una devianza psichica, ma è semplicemente espressione
sessuale della propria personalità tale e quale a quello della eterosessualità.
Inoltre, a livello pedagogico non vi è ragione alcuna per escludere la idoneità
di genitori omosessuali ad amare e allevare un bambino.
UNA PILLOLA NORMATIVA “SENZA EFFETTI COLLATERALI”
Cassazione - sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012
Un nuovo tassello viene posto dalla Corte di Cassazione in
materia di unioni gay: dalla inesistenza giuridica alla esistenza senza effetti
giuridici! Quale sarà il prossimo passo?
Avverso il diniego di trascrizione nei registri dello Stato
Civile, da parte del Sindaco di Latina, del loro matrimonio contratto all’estero, i cittadini
- omosessuali - G.A e O.M. ricorrono
in primo ed in secondo grado riscontrando comunque, in queste sedi, conferma
del diniego di cui in argomento e, quindi, rigetto della domanda.
In sede di ricorso per Cassazione, il giudice di legittimità
ha inizialmente argomentato partendo dalla diversità di sesso, congiuntamente
al consenso prestato dalle parti, quale requisito di esistenza del matrimonio
nell’ordinamento italiano e, successivamente,
ha praticato una ricognizione di quella che è la normativa sopranazionale agli
occhi del giudice competente all’interpretazione della medesima.
La valutazione evolutiva del diritto vivente in materia è così sintetizzabile:
- la Corte Costituzionale con sentenza n. 138/2010 stabilisce che nelle “formazioni sociali” di cui all’art.2 Cost. è inclusa “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia” ma che, la modalità e la garanzia dell’esercizio di tale diritto “inviolabile” sono rimesse alla discrezionalità del legislatore.
Tuttavia, resta “riservata alla
Corte Costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche
situazioni” in virtù del controllo di ragionevolezza ad essa attribuito (vedi
sentenze n. 599 del 1989 e n. 404 del 1988 in materia di convivenze more uxorio);
- la Corte Europea con sentenza 24 giugno 2010 “non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’art. 12 CEDU ( Convenzione Europea dei Diritti Umani) debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. ….Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”
Questo perché, l’inequivocabile
tenore letterale dell’art 12 CEDU e dell’art. 9 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, letti nell’interpretazione in combinato
disposto, riserva la materia al potere legislativo degli Stati che, attraverso gli “ordini di esecuzione”, hanno
autorizzato la ratifica della Convenzione e del Trattato sull’Unione Europea.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che, in virtù della valutazione complessiva, l’intrascrivibilità del matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso, non deriva più dalla sua inesistenza.
Avendo la Corte Europea
rimosso l’ostacolo, la diversità di sesso dei nubendi appunto, la
giurisprudenza della Cassazione non si dimostra più adeguata alla attuale
realtà giuridica!
Preso atto di ciò, il giudice di legittimità, ha rigettato il ricorso poiché le unioni
tra persone dello stesso sesso non sono inesistenti, neppure invalide, ma
“semplicemente” inidonee a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento
italiano.
A parere di chi scrive, il riconoscimento sul piano
ontologico delle unioni di cui in argomento è un grande successo e, in attesa
che il Parlamento, sede privilegiata ed esclusiva per la disciplina del
fenomeno sociale di cui si discute, adotti una normativa che possa far definire
l’Italia una “nazione civile”, lascia al lettore la propria valutazione della
situazione giuridica attuale: quale ambiguità peggiore di una pillola senza effetti? E
quando ci sarà una equiparazione sostanziale tra situazioni anche solo astrattamente omogenee?
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